Song of Horror, recensione PS4
Una canzone che merita di essere tradotta
La paura “vecchio stile” approda anche su console con Song of Horror, il titolo della nostra recensione della versione per console PS4. Alla fine del 2019 il nostro Davide Viarengo ebbe modo di apprezzare la versione PC del lavoro svolto da Protocol Games. Ora come allora, le impressioni restano le stesse, con quella vena nostalgica che pervade l’esperienza nella sua interezza.
Se siete amanti del survival horror “classico”, quello a camera fissa e ambientazioni finemente curate e dense di dettagli, Song of Horror farà al caso vostro. Il ricordo dello sconvolgente Resident Evil Village è ancora vivo (e ancora brucia, ndr). Arrivare a ridosso di questo mostro sacro può sembrare un suicidio annunciato. E invece succede l’esatto contrario. Avere, infatti, un confronto tra quello che era e cosa, oggi, è diventato il genere, casca “a fagiolo”.
Protocol Games ci fa, quindi, tornare indietro di qualche anno, quando la narrativa videoludica era il punto di partenza per lo sviluppo di un videogioco. Tutto bello se questo non fosse frenato dal male assoluto, conosciuto da molti con il termine localizzazione. Bisogna essere madrelingua, oppure avere una buonissima padronanza dell’inglese per non sbattere la testa contro le infinite righe di testo che raccontano la storia, gli eventi e i personaggi.
Il fattore immersione ci fa una pernacchia se ogni “tre per due” si va su google translate per tradurre quello che appare a video. Piccolo dettaglio, questo, che diventa enorme visto il tempo che gli sviluppatori madrileni hanno avuto davanti per il porting su console. Un segno, purtroppo, che lascia intendere un evanescente seguito italiano, ricambiato dal non interesse dei dev. Eppure la presenza di Raiser Games, in veste di publisher, lasciava ben sperare. Mera illusione.
Senza ulteriori indugi, vi lasciamo alla nostra recensione di Song of Horror. Titolo, vi ricordiamo, provato nella sua versione per console PS4.
UNA DISCUTIBILE SCELTA
La domanda sorge spontanea, anche alla luce della versione PC. Quali novità ci sono con la versione console di Song of Horror? Nessuna, molto semplicemente. Stranamente, Protocol Games sceglie le old gen come punto di ingresso al mondo console. Vogliamo pensare che questa scelta sia stata guidata dal fatto che la nuova generazione è in mano a pochi, vista l’enorme frenata produttiva mondiale. Ok, tutto corretto, ma qualche feature dedicata la si poteva inserire. Magari dei modelli poligonali ottimizzati, dei movimenti meno robotici e delle espressioni più umane. Niente di tutto questo, un copia e incolla di quanto visto su Steam.
Tutto questo arreca un gran dispiacere, anche alla luce di quanto il gioco può realmente offrire. Ritroviamo tutti gli ingredienti del concetto “classico” di survival horror. Una vera e propria lettera d’amore ai primi storici Resident Evil e Silent Hill. Scelte non ha caso, visto che puntavano tutto su una scarsa illuminazione, suoni cupi e inquietanti e un attenzione maniacale a tutti gli elementi di contesto. Questi ultimi erano in grado di guidarti, mentre in Song o Horror, il più delle volte confondono sul da farsi.
La colpa, dietro tutto questo, è da ricercare in un sistema di gioco a metà tra il punta e clicca (che talvolta diventa ossessivo e compulsivo, ndr) e un’avventura in terza persona. Il rischio di essere visto come un né carne e né pesce, quando si arriva su console, è dietro l’angolo, con un pubblico che è poco avvezzo alle sperimentazioni “poco chiare”. Menzione d’onore, però, la meritano l’impianto narrativo e la storia in generale. L’utilizzo dei numerosi personaggi paga bene, visto che il pericolo della ripetività viene scongiurato con la scoperta di sempre nuovi personaggi. Tutte le volte si ricomincia da dove si finisce, con quella casa che rivela la sua vera storia e natura ad ogni iterazione.
Tutto questo sarebbe stato perfetto se concepito per le console di nuova generazione. L’idea di non poter sentire il battito del cuore e le vibrazioni della paura lascia un grandissimo amaro in bocca. I teraflops, inoltre, potevano servire da stimolo per migliorare grafica e modelli. Ma questo non è stato, purtroppo.
L’IMMERSIONE INIZIA CON LA COMPRENSIONE
Il problema della localizzazione non tocca tutti i generi. Ci sono alcuni titoli che non richiedono uno sforzo particolare in termini di comprensione. Prendete un platform, per esempio, dove il “grosso” lo si trova nel gameplay. Vi sono, però, alcuni titoli, come Song of Horror, dove tutto gira attorno al capire cosa e come fare. Sempre se si è messi nelle condizioni di farlo, altrimenti la noia e l’apatia sono pronte a offrire un bel passaggio verso altre destinazioni “più comprensibili”.
Siamo nel 2021, e senza fare i soliti discorsi sulla pandemia conosciamo bene cosa significa sviluppare un gioco all’ombra dei big. Storie di scelte e di tagli dei costi, con la localizzazione che è, da sempre, posta sull’altare sacrificale. Quando si deve risparmiare basta togliere qualche lingua e il gioco è fatto. Togliere un idioma, però, significa cancellare una fetta di potenziali utenti che, magari, quel gioco lo avrebbero pure apprezzato. Se solo gliene fosse data l’occasione.
Noi siamo tra questi. A conti fatti ci siamo persi il meglio del gioco, quello narrativo, e la cosa che brucia di più è che il tempo “per fare” c’era. Tralasciando l’esperienza PC, l’arrivo su console poteva intercettare una nuova fetta di pubblico. Il popolo dei puristi e dei nostalgici del survival horror è ancora confuso dopo la botta di Resident Evil Village. Momento perfetto per somministrare una medicina “classica”.
Il problema è che il bugiardino non è scritto in italiano. La speranza è che con i capitoli successivi qualcosa cambi, con un Song of Horror che suoni le note dell’alfabeto tricolore. In tutto questo, però, anche noi abbiamo una responsabilità, quella di dargli una chance. Se volete fare un tuffo nel passato cogliete questa occasione. Non ne capitano molte.
CONSIGLIATO AGLI APPASSIONATI
Una versione console che lascia l’amaro in bocca quella di Song di Horror, approdato sulle old gen PS4 e Xbox One. Tralasciando l’illusione di vederlo su quelle di nuova generazione, Protocol Games non inserisce alcuna feature dedicata per ravvivare la minestra. Stesso musica della versione PC.
La formula del classico “survival horror” funziona bene. Il nostalgico ricordo dei tempi che furono con Resident Evil e Silent Hill è stato un tuffo al cuore. In tutto questo ha sicuramente aiutato la vicinanza di Resident Evil Village in veste di termine di paragone. Storia, personaggi ed eventi, a livello di gameplay, funzionano bene assieme, se visti dal solo punto di vista “tecnico”.
Il problema di fondo è insito nella comprensione generale, colpa dell’assenza della localizzazione in italiano. Per carità, il vocabolario utilizzato vede un inglese “scolastico” ma l’essere inondati da infinite righe da testo da dover, prima tradurre, e poi comprendere, crea un’esperienza frammentata.
A farne le spese, in tutto questo, è il fattore immersione con una fruizione “a singhiozzo”. Capiamo che tutto ha un costo, ma questo vale ambo le parti. Una fetta di pubblico resterà scontenta, quella fetta che, magari, era in grado di creare un seguito. Questioni di scelte, giuste o sbagliate che siano.
Pregi
Un ottimo esperimento del survival horror vecchia scuola, dove il problema della ripetitività viene aggirato con un frequente cambio di prospettiva fornito dai numerosi personaggi presenti. Le atmosfere ci sono, così come la suspense tipica del genere...
Difetti
... gli manca, però, solo la parola. Il problema della localizzazione incide pesantemente sulla fruizione dei contenuti. Complice, in tutto questo, la forte vena narrativa che accompagna il titolo. Tradurre, tutte le sante volte, diventa un bel peso.
Voto
7