Se c’è un fatto ormai impossibile da confutare è quello che vede il videogioco riconosciuto come un’autentica forma d’arte. Una vivida espressione della cultura (non solo dell’intrattenimento) del nostro tempo, ma anche e soprattutto delle visioni di chi i videogiochi li crea. Di chi riversa in codici e pixel le emozioni, i sentimenti e i valori che poi si prestano all’interpretazione di chi con quei prodotti ci si rapporta, ci interagisce.
Ciò che distingue il videogioco da tutti gli altri media è proprio questo: l’interazione. L’atto di rapportarsi a una realtà diversa, seppur fittizia, in cui è possibile mettere in gioco i propri limiti. Di fantasia, di capacità o persino di moralità. E c’è una tipologia di videogioco particolarmente specializzata in questo. Stiamo parlando degli RPG, dei giochi di ruolo. Molti di essi, o almeno quelli focalizzati sulla componente narrativa più che sul gameplay, si prefiggono propriamente di concedere al giocatore la possibilità di sperimentare il peso e le conseguenze di una moralità distante (o vicina, a seconda di ciò che si preferisce) dalla propria. Il tutto in una realtà alternativa che può essere più o meno verosimile.
Il videogioco di formazione
Dunque chi, se non il gioco di ruolo, può essere accostato più facilmente alla formulazione dei caratteri che dovrebbe possedere un ipotetico videogioco di formazione? Nell’atto di ragionare attorno a questo concetto proveremo, per la prima volta in assoluto, ad accostare/comparare un videogioco specifico ai tratti riconosciuti del romanzo di formazione nella letteratura. A fare da “cavia” per questa lunga riflessione sarà il fiore all’occhiello (in attesa di vedere Cyberpunk 2077) della produzione targata CD Projekt Red. Sì, proprio quel The Witcher 3: Wild Hunt che quest’anno ha spento cinque candeline.
Come è noto, questa generazione sta per lasciare il testimone a quella successiva con l’uscita di PlayStation 5 e Xbox Series X. Con l’utenza che si ritrova fortemente spaccata nell’atto di riconoscere un “capolavoro della generazione”, un titolo simbolo dei livelli raggiunti dal medium videoludico negli ultimi (circa) sette anni. Un’opera che ha fissato nuovi standard qualitativi, diventando un punto di riferimento per molti titoli successivi. Tra i papabili vi è senza dubbio il capolavoro del noto team polacco, che non a caso è stato riconosciuto come “studio leader dell’industria nella creazione di giochi di ruolo”.
Ma entriamo nel dettaglio con questo speciale, la cui tesi sostiene quanto The Witcher 3: Wild Hunt sia un portatore esemplare di svariate caratteristiche proprie di un ipotetico videogioco di formazione. Vi auguriamo una piacevole lettura.
L’importanza della lore
“I ragazzini che hanno passato le ore giocando a Galaxian sono gli stessi che si fanno due chilometri a piedi per andare al bancomat invece di starsene in coda ad aspettare un impiegato di banca. Perchè avere a che fare con un’entità non molto socievole, quando l’intera procedura non è altro che una simulazione dell’interazione umana? Alla motorizzazione non si ha a che fare con gli impiegati, ma con i loro computer. Guardate come quegli uomini diventano improvvisamente inutili quando il loro sistema informatico si blocca. Quindi perchè non evitarsi lo stress e avere direttamente a che fare con le macchine?” – J.C.Herz
Complici i limiti tecnologici dell’epoca, il videogioco non nasce come medium narrativo, bensì come una sorta di esperimento universitario compiuto nel 1961 da dei giovani e talentuosi (e in quel momento annoiati) studenti del MIT. In altri termini, a scopo di svago. Oggi la situazione è profondalmente mutata. Non solo al videogioco sono state riconosciute potenzialità e applicazioni ben oltre il semplice intrattenimento. Ma vi è stata la nascita e la diffusione di numerosi generi, caratterizzati da finalità, modalità e non di rado estetica differente. Il passaggio dalla rappresentazione tramite linee e puntini a una vera e propria “grafica” (sempre più tendente al fotorealismo) ha determinato un significativo cambiamento.
Dove per L.Mosna <<l’immaginazione dei giocatori viene stimolata e si iniziano a costruire delle mitologie>>, ovvero l’insieme di elementi contestuali oggi definito lore. Non si parla di videogiochi educativi o “d’intelligenza”, atti a migliorare skills più o meno specifiche alla maniera di una settimana enigmistica, bensì di quelli in possesso di una dimensione narrativa propria. Una storia da raccontare, da vivere. Talvolta persino da scrivere. Tutto passa infatti per la prerogativa numero uno del medium videoludico, ovvero l’interazione.
La formazione nella letteratura
Non ci si limita a crescere, riflettere e maturare con il protagonista, ma anche e soprattutto attraverso esso. Si è, protagonisti, e ci si muove autonomamente all’interno di quella realtà. Una realtà con le sue leggi e le sue regole strutturali (con le quali dovremo venire a patti), ma dove saremo comunque noi a stabilire il grado di “subordinazione”. Ad essere posti al centro della “scena” sono indubbiamente i videogiochi RPG, che per definizione si prestano all’assunzione di un ruolo, da parte del giocatore, tramite la creazione ex novo di un avatar.
O ancor più spesso, tramite l’immedesimazione in un personaggio pre-esistente, con il suo background. Da qui si possono cominciare a delineare le caratteristiche ideali, i requisiti di un “videogioco di formazione”, partendo dai tratti del Bildungsroman, letteralmente “romanzo di formazione”. Genere letterario di matrice tedesca, che G.Ferroni definisce come:
“quei romanzi che descrivono il percorso di formazione del carattere e dell’identità di un giovane eroe, che riconosce se stesso attraverso il rapporto col mondo e che a partire dalla sua esperienza personale elabora una conoscenza critica della realtà sociale e culturale della propria condizione in essa”. – G.Ferroni.
Nel suo Il Romanzo di Formazione F.Moretti ripercorre la nascita del Bildungsroman avvenuta con Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe nel 1774, trattando poi la crisi dell’intero genere (nella sua connotazione generale europea) tra Ottocento e Novecento. A interessare al videogioco sono tuttavia le caratteristiche riconosciute al romanzo di formazione, che pur mutando nel tempo ammettono principalmente un comune denominatore, ovvero un percorso di cambiamento da parte del protagonista attraverso la sua relazione col mondo circostante.
Focus sulla crescita personale (interiore)
Esistono dunque videogiochi che possono essere già annoverati in un fantomatico, nuovo genere quale il “videogioco di formazione”? La risposta è sì, e partiremo dal caso di The Witcher 3: Wild Hunt, premiato dagli oscar del videogioco come miglior titolo dell’anno 2015. F. Moretti afferma quanto il romanzo di formazione ambisca a <<costruire l’Io, e a porlo come centro indiscusso e invalicabile della propria struttura>>. Nella sua accezione più comune il Bildungsroman “segue” il protagonista nella sua crescita in un considerevole lasso di tempo, solitamente in uno di quelli definiti “di passaggio”.
Dall’infanzia all’adolescenza, o ancor più spesso da quest’ultima all’età adulta. Occorre tuttavia distinguere le connotazioni del genere dalle sue più proprie caratteristiche, che fanno riferimento, più che alla crescita “fisica” del personaggio, alla sua maturazione interiore. Oltre a quest’ultima, la “formazione” propriamente detta riguarda infatti il mutamento del suo rapporto con la società e in generale col mondo che lo circonda. Il protagonista di The Witcher 3, lo strigo Geralt di Rivia, non è un fanciullo, ma ha intorno ai 100 anni di età, pur dimostrandone circa la metà.
Tuttavia l’utente, direzionandone le scelte in numerosi contesti, ne determinerà parte (perchè il personaggio è definito di suo dal principio) dello sviluppo e del cambiamento nel corso del videogioco. Quest’ultimo è incentrato sulla ricerca di Ciri, la figlia adottiva perduta e minacciata da un gruppo di spettri cavalieri, la caccia selvaggia (Wild Hunt ndr). Geralt è il protagonista, ma non il personaggio più importante all’interno delle vicende. Sempre Moretti ci ricorda <<la rappresentazione di una bildung (“formazione” ndr) ben riuscita esige un protagonista plasmabile. Il personaggio più necessario, ma non il più importante>>.
Laboratorio etico in The Witcher 3
C’è un limite a quello che Geralt può fare, e la catena di eventi che muove il corso della storia all’interno di quell’universo è mossa da “forze” più grandi di lui. Ed è con queste che si deve comunque scontrare, seppur coadiuvato da altre figure di notevole importanza. L’universo di The Witcher 3 è multiforme e variegato, e (da fantasy qual è) contempla l’esistenza di numerosissime specie di creature provenienti prevalentemente da miti e leggende. Un rapporto complesso, che non è facile esaurire con logiche semplicistiche.
Più volte l’utente, nei panni di Geralt (ma a volte in quelli della fuggitiva Ciri, poco più che ventenne ma già abile guerriera), viene a patti con la realtà, che non identifica arbitrariamente “dalla parte del torto” i mostri. Molti dei quali vivono, o provano a vivere, inseriti nella società umana. Nei panni di uno strigo, che solitamente per professione caccia e uccide le creature non-umane su commissione, l’utente viene messo a contatto con una “zona grigia”. Dove non di rado la vera mostruosità, l’autentica malvagità alberga più nel cuore degli uomini che non in quella delle altre creature, molte delle quali in possesso di intelligenza e di una propria personalità.
Così come esistono uomini buoni e malvagi, non mancano creature minacciose e altre integrate persino nei centri abitati, pur non essendo completamente indenni da forme di discriminazione. La cornice di un laboratorio etico, dello sviluppo e della maturazione dell’utente attraverso le gesta compiute da protagonista passa anche dalla presa di coscienza delle conseguenze delle proprie azioni sul mondo circostante. Nel caso di Geralt, ciò avviene principalmente attraverso il lavoro, la sua attività di strigo:
“il lavoro, strumento impareggiabile di coesione sociale. Non produce merci, ma cose armoniose, ossia nessi. Dà una patria all’individuo. Rinsalda i legami tra l’uomo e la natura; l’uomo e gli altri uomini, l’uomo e se stesso. [..] Lavoro finalizzato alla formazione dell’individuo. E’, nella sua essenza, pedagogia”. – F.Moretti
Esperienza e relazioni umane
Così come le maghe e gli stregoni, ma anche nani ed elfi, Geralt è spesso oggetto di discriminazione in quanto strigo. Non essendo più umano, ma mutante, è abituato all’essere tenuto a distanza dalle stesse persone che sono solite chiedere i suoi servigi. Il lavoro dello strigo è principalmente quello di cacciare mostri, ma include anche lo spezzare incantesimi e maledizioni. Tra loro vige, tuttavia, la regola di rimanere neutrali nelle questioni che non riguardano specificamente i mostri. A partire dalle guerre e dei conflitti (specie di natura politica) tra uomini che animano le terre dove sono soliti viaggiare.
In aggiunta a ciò Geralt si distingue per un suo personale “codice”, autoimposto, che riguarda ad esempio la non-uccisione di creature intelligenti o in via d’estinzione (come i draghi). Tra gli altri strighi Geralt gode inoltre di una fama particolare, essendo conosciuto come uno degli strighi più abili, e in relazione con molte figure importanti del suo contesto, tra cui maghi e re famosi. La relazione con gli altri assume qui un doppio significato. Da una parte quello legato alla lotta ai pregiudizi.
Contrariamente a quanto si crede, gli strighi provano ugualmente rabbia, gioia e tristezza, pur essendo incapaci di “mostrarle” per via dell’addestramento al quale vengono sottoposti prima di partire in giro per il mondo, come vagabondi alla ricerca di contratti. Dall’altra quello legato al sistema di relazioni in sé. Geralt “vive” attraverso il suo lavoro, attraverso la gratitudine che gli viene riconosciuta da coloro che decide di aiutare, attraverso le storie e i vissuti di cui viene a conoscenza durante lo svolgimento di un incarico.
“L’esperienza non consiste più nel fare esperienza di ciò di cui avremmo preferito non fare esperienza. [..] L’episodio diviene esperienza se il singolo sa sì di caricarlo di un significato che allarghi e irrobustisca la sua personalità… Ma sa anche porvi termine prima che essa ne venga modificata in modo univoco e irrevocabile”. – F.Moretti
Incameramento di ciò che si vive
Il singolo “episodio romanzesco” diviene, nella cornice videoludica, la “singola missione”, o in questo caso il singolo contratto. In uno di essi, Geralt arriva in un villaggio, legge un annuncio affisso su di una bacheca e va dal committente, un uomo che gli racconta di come i campi coltivati siano infestati da un wraith. Lo strigo indaga, e scopre che il wraith è il fantasma di una giovane ragazza, figlia di un contadino del villaggio, suicidatasi per un amore tormentato, non corrisposto. Seguendo degli indizi e risalendo alla causa, Geralt riesce a spezzare la maledizione e a liberare il villaggio.
Come l’uccisione di un mostro, tale lavoro non è da considerarsi come un gesto meccanico. Lo strigo funge da “tramite” tra il mondo umano e quello dei non-umani. Capisce i punti di vista degli uni e degli altri e agisce in base al suo esclusivo codice d’onore, senza fare favoritismi particolari legati a una specie in sé. Contratto dopo contratto Geralt “cambia”, e viene sempre più a patti con la sua natura di strigo e a tutto ciò a cui va e può andare incontro, ivi compresa la morte. Si dice sempre, infatti, che uno strigo non muore mai nel suo letto.
Esattamente come un incarico, una “missione secondaria” all’interno del videogioco. Moretti infatti ci dice <<la prova del Bildungsroman è un’occasione: non un ostacolo da superare restando intatti, ma qualcosa che va incorporato, che solo inanellando esperienze si costruisce una personalità>>. A un certo punto il corpo smette di crescere. Lo stesso non si può dire della personalità, la quale non finisce mai di svilupparsi. O meglio, può essere sempre e comunque soggetta a influenze e conseguentemente a cambiamenti.
Il quotidiano opposto al cammino del tempo
Nel corso della storia Geralt non cambia solo pensieri e atteggiamenti, ma persino credenze circa il destino. Tutto attraverso la sua relazione con gli altri, dai singoli committenti, alle creature che può scegliere di uccidere o risparmiare (se non aiutare, in alcuni casi), alle persone a lui più vicine. <<Uno straordinario setaccio opposto al cammino del tempo>>. Così F. Moretti definisce la vita quotidiana, che:
“esige, per dare i suoi frutti, che i rapporti sociali godano di uno stato di sostanziale e insindacato equilibrio. [..] Il romanzo si fonda infatti sul presupposto che i rapporti sociali siano rappresentabili attraverso il filtro della personalizzazione”.
I rapporti di Geralt con gli altri personaggi principali ben si prestano a tale considerazione. Quello burrascoso con l’amata Yennefer, al quale rimane sentimentalmente legato tutto il tempo nonostante le continue divergenze, molte delle quali derivanti dal forte e orgoglioso temperamento della maga. Il legame con la figlia adottiva Ciri, legata per nascita ad eventi “naturali”(erede al trono di uno dei regni del continente) e sovrannaturali (ella è in possesso di poteri immensi, bramati da molte entità).
Della quale il destino sarà stabilito dalle nostre azioni durante la storia, da ciò che sceglieremo di fare (e anche di dire) in numerose circostanze. Il rapporto col suo mentore, lo strigo Vesemir, che considera alla stregua di un padre e che ricoprirà, come altri, un ruolo importante nella narrazione. Secondo F. Moretti il “mondo possibile” evocato dal Bildungsroman è <<una totalità fitta di connessioni che permette all’individualità di rimanere tale e, insieme, acquistare senso>>.
Le relazioni, capitale sociale dell’individuo
Come ciascuno di noi, Geralt “è” i rapporti che sceglie di avere. Dove alcuni sono fortemente rilevanti e capaci di porre significative “influenze”, ma dove la maggior parte, di portata minore, sono da considerarsi la base dell’esistenza dello strigo. I rapporti con i mercanti, con i locandieri, con i contadini, con i soldati e in generale con tutte le figure meno “statiche” e più “fluide”. Ovvero soggette a un continuo ricambio in contrapposizione ai capisaldi del “patrimonio relazionale” dello strigo.
L’insieme di relazioni costituisce il “capitale sociale” dell’individuo, e ne determina il significato primo della sua esistenza, oltre che la sua “estensione”. Relazioni che tuttavia necessitano di una cornice stabile e precedentemente determinata. Un altro requisito fondamentale nell’ambito di un videogioco “di formazione” sarebbe infatti la pre-esistenza dell’universo di riferimento. Sempre F. Moretti asserisce quanto:
“Il romanzo, a differenza dell’epica, non ci racconta mai la fondazione (materiale e simbolica) di una civiltà, ma presuppone che essa funzioni già in modo sostanzialmente normale. E’, questa, una condizione a priori del romanzo come forma simbolica: senza di essa, d’altronde, non sarebbe mai divenuto rappresentabile il tema romanzesco per eccellenza, del tutto ignoto all’epica e al dramma, il tema della formazione e della socializzazione dell’individuo: che è concepibile solo se l’eroe non è un grande uomo e le norme sociali, per parte loro, godono di una sostanziale stabilità”.
Prendendo in considerazione i punti trattati finora emerge, nell’atto di costruire un’accezione del “videogioco di formazione”, una valenza più ampia del “semplice” concetto di Bildungsroman. Che si tratti di crearle o di spezzarle, la formazione vive di relazioni, con l’ambiente e con la società, da intendersi negli individui.
Viaggio sensoriale nel videogioco
Certo, sarebbe assurdo non considerare ugualmente “formativi” gli MMOG (Massive Multiplayer Online game ndr), che mettono gli utenti nelle condizioni di interagire tra di loro. Persone “reali”, che comunicano e agisco in vari tipi di dinamiche e di contesti. Da un’interazione tra persone difficilmente non può scaturire un arricchimento, un’occasione di confronto o quant’altro.
In questo caso, tuttavia, vanno presi in considerazione i soli videogiochi single-player. I quali mettono in connessione l’individuo con un insieme di relazioni “artificiale”, creato da un disegno intelligente (in questo caso quello umano). La lettura di un romanzo è da considerarsi un’attività sia “singola” che “passiva”, cioè che si ritrova giocoforza ad affidare tutta la forza evocativa dell’esperienza al solo testo:
“il Bildungsroman fa sì che il lettore percepisca il testo attraverso gli occhi del protagonista: cosa del tutto logica, considerato che questi è colui che deve formarsi, e la lettura si propone anch’essa come un percorso formativo. Lo sguardo del lettore è dunque incardinato a quello del protagonista: egli si identifica con lui, condivide la parzialità e l’individualità delle sue reazioni”. – F. Moretti
Il videogioco, viceversa, non solo (alla pari di un film) si serve delle immagini e dei suoni, ma anche del “tatto”. Cioè dell’attività manuale da esercitare attraverso la periferica, che sia joystick o mouse. L’interazione presuppone un’azione diretta in quel mondo, in prima persona, seppur “mediata” dagli input tramite la pressione di tasti o levette varie. Un videogioco di formazione non può non prescindere, al pari di un romanzo, da un’esperienza “di viaggio” (interiore ancor prima che “esteriore”). Da intendersi come sviluppo del protagonista.
Una realtà con cui confrontarsi
Nel caso di un avatar-alter ego, come Geralt o qualunque altro personaggio creato con caratteristiche pre-impostate fisse, diventa più “naturale” perseguire una connotazione formativa fedele alla tradizione romanzesca. Questo poichè si tratta di personaggi con un loro background, in cui ci si può immedesimare e (nel caso esclusivo del videogioco) vivere e/o direzionare la crescita o lo sviluppo. In misura diversa, ma non per questo minore, diventa possibile compiere un processo (videoludico) formativo mediante un avatar-estensione, ovvero creato a tavolino tramite un editor.
Essendo quindi esclusa, per definizione, una caratterizzazione iniziale, ci ritroveremo a dover puntare ancor più sul fattore d’immedesimazione, essendo (potenzialmente) un personaggio creato a nostra immagine e somiglianza. Un nostro tramite in un’altra realtà nella quale poter comunque mettersi a confronto con un altro contesto. Dove potremo sperimentare il peso di scelte e conseguenze entrando in relazione con altre figure. Figure che, seppur controllate dall’IA (intelligenza artificiale), risulteranno più “umane” e imprevedibili dei personaggi resi vivi da un “semplice” testo.
Negli ultimi anni, oltretutto, la stessa IA ha compiuto passi da gigante anche nell’ambito videoludico, con personaggi NPC (non giocanti, e quindi controllati dal computer) progressivamente più intelligenti. Capaci di non limitarsi al solo ripetere azioni predefinite in maniera meccanica, ma in grado di sviluppare una propria intelligenza e capacità di “risposta” all’interno di un mondo in continua evoluzione. Anche grazie al nostro personalissimo apporto.
Il videogioco come strumento di formazione all’ennesima potenza, poichè in possesso di caratteristiche strutturali in grado di renderlo, seppur con dei limiti, un surrogato della realtà. Caratteristiche storiche del romanzo prese in prestito e reinterpretate in una chiave moderna, videoludica, dove ancor più che nei libri, l’essere umano (nella fattispecie lo sviluppatore) “gioca” a fare dio. Generando luoghi, persone e relazioni in una cornice definita e limitata, ma ugualmente e continuamente modificabile.
Bibliografia
- Ferroni G., Profilo storico della letteratura italiana, Vol.II, Einaudi, 2011.
- Herz J.C., Il popolo del joystick, trad.it. di L.Piercecchi, Feltrinelli, 1998.
- Moretti F., Il romanzo di formazione, (1999), Einaudi, 2015.
- Mosna L., Il videogioco. Storie, forme, linguaggi, generi, Audino, 2018.
- Triberti S. & Argenton L., Psicologia dei videogiochi, Apogeo Education, 2013.