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Loot box, bimbi e vigili “morbidi”

Un "trio" potenzialmente esplosivo per il mondo videoludico

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Circa 15 anni. È da circa 15 anni, infatti, che il sistema dei loot box, che non è universalmente paragonato al gioco d’azzardo solo per una mera questione legata alla canonica “arretratezza” del legislatore, esiste ed è stato ufficialmente introdotto.

I cavalli di Troia, in questo senso, sono stati i free-to-play. Secondo alcuni storici del videogame, la prima forma di pseudo loot box è stata il “Gachapon Ticket” di Maplestory: una “macchinetta” stampa biglietti che, al modico costo di circa un euro, consentiva l’ottenimento di codici da riscattare in gioco, per ottenere item random. Ma, al di là del vero o presunto inizio, quel che importa è l’arretratezza “incosciente” delle grandi case di diffusione ludica, dei veri gateway di quasi tutto l’intrattenimento gaming: ovvero Microsoft, Nintendo e Sony.

Nelle scorse settimane, come anche riferisce questo articolo su RollingStone Italia che ha fatto nascere poi questa riflessione, i tre grandi simboli dell’industria si sono espressi proprio riguardo la questione: in buona sostanza, tutte e tre le compagnie si sono impegnate ad intraprendere nuove misure a livello di piattaforma nel 2020 per correggere le storture del sistema delle microtransazioni. In modo particolare, saranno esplicitati in chiaro i drop rate, le probabilità di ricevere oggetti ecc.

Del resto, questo tipo di informazioni sono già rese pubbliche in moltissimi titoli mobile di rilievo, dove il fenomeno delle loot box è nato e si è sviluppato.
Tra i publisher che hanno firmato il documento che li impegna a garantire più trasparenza per gli utenti troviamo: Activision Blizzard, Bandai Namco, Bethesda, Bungie, EA, Take-Two Interactive, Ubisoft, Wizards of the Coast e Warner Bros.

A questo punto, ad un videogiocatore mediamente anziano che non ha mai acquistato nessun tipo di loot box per principio, potrebbe sorgere qualche dubbio: davvero erano necessari (almeno) dieci e più anni per capire che i loot box e le microtransazioni, che funzionano esattamente come una slot-machine, potessero essere dannosi? Davvero serviva tutto questo tempo per capire che la questione andasse affrontata formalmente? Ma, soprattutto: dopo quindici anni, in un settore dove circa il 30% degli utenti è costituito da (milioni) di ragazzini ben al di sotto della maggiore età, siamo sicuri che dati e numeri probabilistici siano la soluzione al problema?

Il gioco d’azzardo è un problema serio, che può creare dipendenza e che spesso conduce le persone in situazioni estreme e complicate da gestire. Ma se un uomo adulto ha poche “difese” contro gli stratagemmi “risucchia realtà” utilizzate dalle aziende che lo fanno per mestiere, quali armi dovrebbero avere ragazzini in tenera età? Dopo anni e anni di “crescita incontrollata”, metter le “percentualine” sembra un po’ poco.

Che differenza potrebbe fare agli occhi di un ragazzino sapere che il cosmetico da 10 euro che lo fa sognare, esce una 1 volta su 2.500 tentativi? Ad un adulto, probabilmente, farebbe capire che servono almeno 25.000 euro (un anno e mezzo circa di stipendio di un impiegato normale). Ad un ragazzino? Che servono “un po’ di soldi”.

Le tre grandi aziende dovrebbe mostrarsi concretamente interessate alla risoluzione di un problema che crea non solo danni economici, ma che alimenta anche quella passione smodata e incontrollata per i videogame che riduce in “schiavitù”. Questione che ha sicuramente radici venefiche che non possono essere ovviamente additate unicamente a chi i videogame li vende. Cosa si potrebbe fare? Ad esempio creare account connessi a documenti di identità.

Con verifiche reali a due o tre fattori, dove l’ok definitivo all’acquisto lo potrebbe dare ad esempio un numero di cellulare specifico, previa verifica telefonica vocale o semplice sms. Impegnarsi realmente nella verifica dell’identità del giocatore e informare sui pericoli del gioco d’azzardo, che crea davvero dipendenza. Questi e tanti altri stratagemmi potrebbe esser fatti per “complicare” la vita agli utenti vogliosi di loot box. Le armi ci sono o possono esser create: quello che manca, al momento, è la volontà di mettere davvero in atto meccanismi in grado di porre un serio contrasto al fenomeno.

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1 commento su “Loot box, bimbi e vigili “morbidi””

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