Track and Field, una storia di monete, palline da ping pong, righelli e plance vilipese
Adriano Avecone ci racconta come nella prima metà degli anni ‘80 l’atletica nei videogiochi fosse faticosa come quella in pista
Il genere olimpico fu uno dei paradigmi videoludici di maggiore successo nella prima metà degli anni ’80. Intere legioni di giocatori immolavano arti, unghie, dita e tendini sull’altare dei titoli ispirati alle competizioni olimpiche, che consentivano di partecipare a una serie di eventi tipici della kermesse sportiva più importante al mondo.
Il genere spopolava a livello arcade e sui sistemi casalinghi diventando causa di indicibili infortuni, stress muscolari e devastazioni fisiche dei terribili joystick a lamelle. Quest’ultimi erano le periferiche di gioco più diffuse negli anni ’80.
Si trattava di orribili strumenti di tortura spesso a forma di cloche di aereo, dotati di lamelle resistenti come la linguetta di una lattina di Coca-Cola e onnipresenti sugli scaffali degli oscuri negozietti di informatica del tempo, in cui l’odore delle sigarette e dei posacenere incrostati si mescolava a quello del cartone ammuffito e della plastica cotta dal sole.
La promessa di questo genere di giochi era succosa: partecipare alle Olimpiadi senza spostarsi dagli angolini oscuri e puzzolenti dei peggiori bar della città. Track and Field di Konami, denominato Hyper Olympic in Giappone, fu il capostipite del genere olimpico arcade, in seguito convertito per numerose piattaforme domestiche. Dalle nostre parti, il gioco era spesso disponibile con la denominazione giapponese a causa del dilagante fenomeno delle schede bootleg. Pubblicato nel 1983, Track and Field offriva una meccanica di gioco innovativa, un comparto tecnico accattivante e un concept rivoluzionario. Il gioco trasformò la Konami nell’autorità assoluta nel campo dei giochi sportivi multievento, spingendo la casa giapponese a produrre altri classici del genere come Hyper Sports (in Giappone “Hyper Olympic ’84”).
La scheda arcade di Track and Field utilizzava una componentistica di riguardo: una CPU M6809 a 2,05 MHz, uno Z80 a 3,58 MHz usato come processore audio e due DAC (convertitori di segnale digitale-analogico) SN76496 a 1,789772 Mhz e VLM5030 a 3,58 Mhz.
L’interazione aveva luogo tramite tre tasti. I primi due consentivano di cadenzare la corsa dell’omino baffuto protagonista del gioco, denominato “Pruzzo” dai ragazzini dell’epoca a causa della somiglianza con il calciatore Roberto Pruzzo. Il terzo tasto consentiva di eseguire un’azione variabile in base all’evento. Erano disponibili sei prove di atletica leggera: 100 metri, in cui occorreva pigiare a raffica i tasti di corsa, 110 metri a ostacoli, in cui era richiesto un certo tempismo per scavalcare gli ostacoli disseminati lungo il tracciato, salto in lungo e lancio del giavellotto, che imponevano una furiosa rincorsa e la selezione del corretto angolo di salto o lancio, lancio del martello, l’unica prova che non richiedeva smanettamenti ma un ottimo tempismo, e salto in alto.
A causa degli immani sforzi richiesti da gran parte degli eventi, i giocatori svilupparono una serie di sordidi trucchi che sottoponevano le plance dei cabinati a devastazioni indicibili. Ad esempio, per ottenere prestazioni da record era possibile strisciare sui tasti una serie di oggetti, come ad esempio palline da ping pong, righelli metallici o il taglio di una monetina.
Questi laidi stratagemmi richiedevano tecniche di camuffamento molto evolute, come ad esempio il bieco utilizzo di alcuni amichetti reclutati come falsi astanti in modo da nascondere le malefatte dei piccoli delinquenti. Per risolvere il problema, molti noleggiatori modificarono i cabinati sostituendo i tasti con robusti joystick, in modo da ridurre i danni ai cabinati ed evitare i catartici ceffoni comminati ai piccoli teppisti.
Oltre all’eccellente gameplay, Track and Field era un gioco caratterizzato da un umorismo molto riuscito. Ad esempio, il giudice del salto in lungo è clamorosamente strabico e sposta gli occhi da destra a sinistra durante l’operazione di misura del balzo. I giocatori eliminati piangono disperatamente come avvenne per il mitico Roman Virastyuk, il (famoso suo malgrado) pesista ucraino squalificato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 per aver superato il tempo massimo nel lancio decisivo. Inoltre, scagliando il giavellotto in verticale sarà possibile colpire un povero piccione di passaggio, mentre eseguendo due salti in alto nulli seguiti da un tentativo valido, dal sottosuolo spunterà una talpa con una dote di ben 1.000 punti.
Track and Field è un gioco competitivo, appassionante e dotato di una meccanica vincente per i giovani dell’epoca, che potevano divertirsi, competere fra loro e sfogare la propria esuberanza adolescenziale. Esistono ancora competizioni globali legate al gioco Konami, purtroppo falcidiate da cheat e periferiche dotate di circuiti atti a superare i limiti meccanici di braccia e plance di gioco. Track and Field non richiedeva alcuna capacità particolare, se non la disponibilità di bicipiti d’acciaio e di un ottimo tempismo. In seguito, il concetto di “button mashing” (ovvero “smanettamento selvaggio”) divenne un elemento di gameplay poco apprezzato nel campo dei giochi olimpici, che iniziarono a privilegiare il tempismo e la regolarità al posto della forza bruta.
Questo paradigma consentiva anche di salvaguardare i fragilissimi joystick a lamelle che spadroneggiavano nelle case dei ragazzetti degli anni ’80, fra un televisore Brionvega e le radio a valvole della nonna, ricoperte dall’immancabile centrino ricamato a mano. Track and Field resta ancor oggi un titolo molto valido soprattutto in multiplayer, un piacevole passatempo per le serate in compagnia degli amici fra bestemmie e slogature alle mani.
Konami perfezionò la meccanica di Track and Field nel seguito Hyper Sports, un titolo più vario e bilanciato che consentiva di partecipare a una vasta gamma di sport olimpici, unendo diversi paradigmi di gameplay in un mix dotato di un’eccellente varietà e longevità. Ma questa è un’altra storia.
Adriano Avecone