Varchi spazio-temporali, fruttini e fondi di caffè: l’epopea di Zaxxon

Adriano Avecone ci racconta questo capolavoro con i suoi ricordi ed emozioni

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È difficile descrivere le emozioni offerte da un gioco arcade come Zaxxon. Siamo nel 1982: gran parte dei videogiochi arcade offriva un comparto grafico molto semplice, spesso a schermo fisso e con elementi stilizzati, mentre i prodotti casalinghi erano dotati di una resa visiva molto inferiore alle controparti arcade.

“I giochi con i fruttini” era il triste epiteto con cui alcune persone indicavano i colorati bonus dei primi giochi arcade, spesso rappresentati da elementi semplici come un frutto o una stellina. Solo in rari casi la qualità dei titoli per le macchine casalinghe riusciva a rivaleggiare con i videogiochi arcade (volendo essere ottimisti): si trattava di mosche bianche come ad esempio le conversioni di Donkey Kong per Colecovision o di Mikie della Konami per Commodore 64.

Zaxxon era un’altra cosa. Nonostante la buona conversione disponibile per Colecovision e altri sistemi casalinghi, il titolo Sega restava un traguardo irraggiungibile in termini di risoluzione, fluidità e colori anche per sistemi per l’epoca molto potenti.
Le conversioni di Zaxxon apparivano lontane anni luce dall’originale, anche se la scheda arcade del gioco Sega non utilizzava un hardware fantascientifico: una CPU Zilog Z80 a 3 Mhz, la stessa in dotazione al Sinclair ZX Spectrum e a tanti altri home computer, ma dotata di una generosa quantità di memoria video e altri intelligenti accorgimenti. Zaxxon sembrava una artefatto inviato da una civiltà aliena per insegnare ai terrestri il concetto di videogioco. Durante le interazioni con Zaxxon, l’universo quotidiano dei nerd degli anni ’80 svaniva in un soffio: delusioni scolastiche, compagne di banco a cui tirare le trecce, Deejay Television, videoclip di Sabrina Salerno e stampanti ad aghi. Zaxxon incuteva una soggezione tecnologica difficile da descrivere, che in un attimo rendeva obsoleti oggetti straordinari come Commodore 64, Datassette, zainetto e calcolatrice Casio. Zaxxon era qualcosa di IMPOSSIBILE per il 1982: un film in stile Tron o Guerre Stellari inserito in un ordinario cabinato “prontoscheda” installato nei lerci retrobottega di quei bar con gli inserti in legno e formica e la puzza dei filtri di caffè riciclati.

Intorno al gioco circolavano le più stravaganti leggende metropolitane: “Si controlla con il pensiero”, “C’è la cloche del Millennium Falcon”, “A un certo punto viene fuori Obi Wan Kenobi”, “Lo schermo si apre ed esce il robot” e via dicendo.
Dopo aver ammirato per qualche minuto lo spettacolare “attract mode” del gioco, portavamo le pacioccose manine alle tasche per prelevare le monetine necessarie per giocare, cercando di dissipare l’intensa soggezione tecnologica.

Le prime partite erano un fiasco totale: il gioco era molto difficile a causa dell’inedita e complessa prospettiva isometrica con ombre dinamiche, una novità per il mondo arcade dell’epoca. Zaxxon consentiva di pilotare una navetta attraverso diverse fortezze collocate su asteroidi piatti (!) con l’obiettivo di compiere la consueta strage di nemici. Inoltre, occorreva rifornire periodicamente il proprio caccia distruggendo una serie di serbatoi di carburante inspiegabilmente collocati dai nemici sul percorso di gioco.

L’usanza di inserire serbatoi di combustibile nei livelli di gioco risale a titoli come Scramble della Konami, uscito solo un anno prima ma tecnicamente ormai di un’altra era. Forse questi serbatoi erano una reminiscenza della crisi energetica degli anni ’70, oppure fra le fila dei cattivoni era presente il classico cattivo dal cuore d’oro tipico dei film action degli anni ’80. Non lo sapremo mai.

I livelli di Zaxxon offrivano una qualità grafica impossibile per l’epoca: muri dettagliati che sembravano avvolti da campi di forza in stile TRON, il celebre film di fantascienza della Disney, strutture avveniristiche al suolo, barriere elettriche animate, razzi scagliati in cielo senza motivo, muri di mattoni bianchi (!), stretti passaggi e un boss robotico enorme. Si trattava di elementi in grado di mandare in visibilio un giovane degli anni ’70-80, caratteristiche impossibili da eguagliare per i “giochi con i fruttini”, che scivolavano sempre più indietro nei retrobottega dei bar con gli inserti in legno e formica e la puzza dei filtri di caffè.

Alla fine della partita, i nerd pacioccosi entravano in uno stato di sospensione dalla realtà: avevano interagito con un film “alla Guerre Stellari” e, stravolti dall’emozione e dalla meraviglia, DOVEVANO lanciarsi in una seconda avventura per fare sul serio (“Era una prova, adesso vedrete”). Per giocare a Zaxxon occorreva destreggiarsi fra altitudini variabili, cabrate, picchiate e beccheggi, per poi evitare nemici e colpi in uno spazio isometrico pseudo3D, elemento del tutto inconsueto per i giochi dell’epoca. Il gioco era complesso anche per i più grandicelli e i primi bulli da sala (“Ti faccio vedere io come si gioca”).

Gettone dopo gettone, partita dopo partita, era possibile domare Zaxxon usando lo sparo per individuare il punto in cui attraversare gli stretti passaggi, per poi calibrare le furiose battaglie da ingaggiare nello spazio interposto fra le fortezze. La prospettiva delle sequenze di volo spaziale era realizzata in modo approssimativo: a causa della mancanza di riferimenti, gli aerei venivano rimpiccioliti in modo barbaro per restituire il senso di allontanamento prospettico. All’epoca nessuno faceva caso a questi dettagli, così come all’assurda presenza di un satellite artificiale per telecomunicazioni nello spazio profondo interposto fra le fortezze galleggianti.

 

Una volta raggiunto il decimo livello, il gioco visualizzava un messaggio implorante: “GIVE UP”, ovvero “Ho perso, ma puoi continuare a umiliarmi”. Questa singolare dicitura, una rarità nel campo dei videogiochi, consentiva di continuare il gioco per ottenere un punteggio elevato, essendo ormai la missione completa. Gli anni ’80 erano anche questo.

Zaxxon era uno dei tanti giochi afflitti dalla piaga dei “bootleg”, repliche non autorizzate delle schede arcade realizzate da aziende senza scrupoli al fine di ottenere lauti profitti in modo illegale. Uno dei bootleg più celebri di Zaxxon era denominato “Jackson”, nome vagamente somigliante all’originale ma del tutto estraneo al contesto spaziale del gioco. Chi era questo Jackson? Un cantante alieno? Il presidente della colonia spaziale? Non lo sapremo mai.

Nonostante i quasi 40 anni trascorsi dalla sua pubblicazione, Zaxxon conserva ancor oggi un enorme fascino che lascia intravedere l’impatto deflagrante del titolo Sega sul mondo dei giochi da bar dei primi anni ottanta. Stava per nascere una nuova generazione di titoli in grado di meravigliare attraverso un’estetica fuori dal comune e meccaniche all’avanguardia: i giochi con i fruttini erano ormai sul viale del tramonto e indietreggiavano mestamente nel retro di quei bar con gli inserti in legno e formica e l’odore dei fondi di caffè riciclati.

Adriano Avecone