Non è mai facile scrivere per commentare un articolo di una collega. E’ una cosa che odierei se la si facesse nei miei confronti, purtuttavia non posso esimermi dallo scrivere e commentare quanto letto su Repubblica da un titolo ammaliante al punto di essere forviante:
“I videogame da milioni di dollari ora si sviluppano in cameretta”.
Si sa che il compito della stampa è quello di dare notizie, raccontare storie nella massima semplicità ed in modo fluente per far comprendere il messaggio a tutti. Il problema qui è che il messaggio è completamente errato. Si dà, ancora una volta, l’immagine sbagliata e questo per la necessità di semplificare tutto e, o, scarse informazioni di base.
Uno dei compiti del cronista è quello di raccontare storie ma anche di essere quanto più esaudiente e preciso possibile (la mia vuole essere una critica costruttiva perché il primo a compiere erroracci sono io che ho sempre da imparare perché più imparo e più dimentico).
Così, però, mi si permetta, non è. Ed in questo modo si offre una idea sbagliata dell’industria videoludica italiana ed in generale del mondo dei videogiochi che la stampa generalista non esita quasi mai a dipingere come uno dei seri problemi delle nuove generazioni.
Andando al dunque, però, perché non voglio tediare chi mi legge, voglio ribadire che quanto affermato è assolutamente assurdo ed irreale. Ammaliante perché il titolo cattura e mette il dubbio, il tarlo, ai tanti che non sanno effettivamente cosa ci sia dietro la realizzazione di un videogioco. E può ci si può convincere alla lettura del pezzo, che basti solo il talento (per carità, quello serve e non sto a sindacare sul gioco in questione) ed insomma, che sviluppare sia una ragazzata. Fa bene,
Alberto Belli, un collega che tra l’altro ha fondato Storm in a Teacup (software che ha realizzato NERO) e comunque vanta una “discreta” esperienza in questo campo (videoludico) a tuonare dal suo blog perché sostanzialmente si offende il buon lavoro di molti sviluppatori italiani, le spese ed i sacrifici.
Qualcuno in passato lanciò un messaggio simile: vi ricorderete di un certo un gioco sull’Unità d’Italia che venne realizzato gratuitamente e che avrebbe potuto competere con i colossi (citarono anche Call of Duty, gioco – per quanto io non possa sopportare – è realizzato da maestri con tecnologie costosissime).
Fu un disastro e questo perché non si può mai pretendere che il lavoro gratuito possa essere identico a quello pagato. Concetto che anche noi giornalisti dovremmo far valere perché molti di noi sono sottopagati o ancora peggio (e non è che si lotti molto per questa situazione… ma anche questa è un’altra storia).
Produzioni milionarie come The Witcher, GTA V, Call of Duty, Fifa, Metal Gear Solid e potrei continuare all’infinito sono tali perché ci sono squadre di centinaia di sviluppatori pagati (anche bene) per fare il loro lavoro.
L’universo indie comincia ad essere importante? Certo, ma è la scoperta dell’acqua calda ed anche un progetto indipendente di piccole dimensioni ha il suo costo.
E’ impensabile che il gioco protagonista dell’articolo sia costato 30 euro. O meglio che il suo sviluppo sia costato così poco. Soltanto la pubblicazione su Greenlight richiede 100 dollari come una tantum e questi sono costi che giocoforza vanno già ad influire moltissimo e sfatano il dato scritto. E dire che il dato è riportato come dichiarazione dagli sviluppatori che hanno coperto l’onere col “crowdfunding”.
E poi con che cosa hanno sviluppato il titolo? Unity che è gratuito. E basta? Mi sembra un po’ riduttivo. Ma cosa dovrebbero dire i vari Kunos con il loro poderoso Assetto Corsa, uno dei simulatori automobilistici più apprezzati in tutto il mondo? E Studio Evil? Vorrei chiedere a loro quanto costino i loro giochi. E gli altri studi italiani, ce ne sono valenti ed a breve usciranno titoli interessantissimi (The Town of Light di LKA.it). Sebastien Loeb Raly Evo (Milestone) e tanti altri. Scusate se non ne cito almeno il 10 percento. E’ assurdo. Sarebbe interessante sapere cosa l’AESVI, l’associazione di categoria in Assindustria, ne pensi. Sono convinto che non sia d’accordo col concetto espresso da Repubblica.
Senza dimenticare chi si affida a Kickstarter o ad altre piattaforme crowdfunding per progetti più o meno piccoli. Una cosa: anche i doppiaggi e localizzazione nella nostra lingua costano. E sicuramente non 30 dollari. Purtroppo a svalutare il lavoro altrui ci si mette sempre troppo poco tempo.